Quando Uccio se ne andò le chiesi. "Perché si chiama Uccio e non Nuccio". Allora lei disse che il nome vero fosse Sebastiano se non addirittura Alfio. La cosa interessante era però che tra le cassette di musica saltò fuori L'era del Cinghiale Bianco, il secondo o il terzo disco pop di Franco Battiato.
Portava una tuta da magazziniere che poi mi ha prestato un giorno che non trovavo un paio di pantaloni puliti. I capelli castano chiari erano legati dietro la schiena nel periodo in cui erano lunghi e cadevano lisci a lenzuolo come l'acqua al sole della fontana. Per passare inosservata incrociava le braccia e stringeva le spalle, spesso camminava radente ai muri e incurvava la schiena. Usava la mano con la sigaretta per nascondere la faccia con il palo della mano a fare da sostegno.
Solo se presa di mira alzava gli occhi ed erano più grandi del previsto. Più che azzurri erano di un rossoblu quando doveva fulminare l'interlocutore. Era così dolce dentro da apparire fuori come una tartaruga corazzata di munizioni. Non parlava mai d'amore, tranne quando scioglieva la coda di cavallo alla fine della giornata come fanno le donne austere delle isole del Nord Europa. Di notte la paglia era vicino al fuoco e il fuoco era dentro di noi.
Ascoltammo Battiato e per me era la prima volta. Avevo sentito prima solo Pollution o Fetus, ai tempi delle radio libere di quartiere quando i ragazzi sul terrazzo aggiustando la grande antenna cantavano i versi di santità rivelata e ingenua di certe canzoni. Lui era un misto tra professore di religione e il devoto dei sufi. Ma a me ricordava anche una maestra di matematica delle medie. Ascoltammo le cassette di seguito senza parlare, ne ascoltammo tante. Anche quella con gli America. E la carta da parati nella zona del cuscino si era strappata e in alcune zone diventata scura come tinta di olio.