mercoledì 21 settembre 2016

Oculato e profumato

La polvere dei rumori ricopre la gente, i mobili delle case lasciate dai morti. Ma oggi è giorno di nuvole e umido, potrebbe essere la tregua dell' estate permanente. Forse il ghiaccio del polo Nord la smette di sciogliersi. E questa prima acqua dal cielo potrebbe cancellare i segni del tempo, almeno dai vetri delle auto in sosta.

Nell'atrio di ingresso del palazzo una signora con occhiali parla del tempo a un'altra più giovane, e questa risponde per cortesia. Ma la signora con la parlantina non la ascolta, deve rammentare della neve dell'86 alta così e dei falsi miti sul freddo di Milano. L'altra dice allora del terremoto in Emilia e in Irpinia, era bambina e il padre la teneva per mano mentre scappavano dal palazzo di Salerno.

La porta dell'ambulatorio davanti alla piccola folla non si apre ancora, manca qualche minuto. Pare solo questione di minuti, la porta si aprirà alle nove. Quando cerco di entrare si capisce che è chiusa dal di dentro, allora aspetto con le due signore che continuano a parlare, ora del tempo ora di qualcosa a cui potrei rispondere secondo quanto si capisce. Ma non abbocco e mi concentro sulle maniglie d'epoca del portone di vetro.

Nell'ingresso del palazzo c'è un cartello che dice Sono vietati gli assembramenti e anche altri eventi di disturbo della quiete. Le due parlano ora del più e del meno a volume sostenuto tanto che qualcuno esce dall'ascensore preoccupato. A un certo punto verso di me sale dal centro dell'atrio un profumo penetrante come di acqua di colonia a lungo conservata. Lo sento nel centro della testa e in mancanza di ricambio di aria potrei decidere di lasciar perdere la visita dell'oculista.

Un rumore dietro la porta fa intendere che ormai l'ambulatorio è aperto. Così giro la maniglia e questa si apre. Al che la signora parlante si gira di scatto e la lascio passare come si fa coi tori davanti alla muleta. Lei però aspetta il dottor tal dei tali che non arriva mentre l'altra per sua fortuna va dritta verso l'altra porta aperta del medico specialista.

Il mio medico è diventato più anziano ma è sempre gentile, si notano dei mocassini colorati in contrasto con il grigiore del resto. Inoltre perlustra il fondo dei miei occhi con varie apparecchiature con il solito garbo e cortesia. Ruota ogni attrezzo il maestro degli occhi, copre le pupille quando serve e poi le scopre, dice di guardare verso la lucetta e io guardo. Poi si avvicina come se volesse vedere dentro la cornea con un attrezzo luminoso, si avvicina e stringe il dorso della mano sulla mia guancia fino a che dice, ora guardi la luce. Stringe forte anche l'altro occhio e l'altra guancia, poi finisce tutto.

Credo di aver diritto a un rimborso parziale di una parcella e mi reco perciò all'ufficio amministrativo guidato da due altre impiegate diverse dalle prime addette all'ambulatorio. Ma la signora parlante mi ha seguito e ora aspetta anche lei davanti al secondo sportello. L'odore di colonia si è impossessato così di quest'altro ufficio adiacente al primo in un altro numero della via e di tutti noi che aspettiamo un certificato e una fotocopia come riscontro.

Per un attimo, uscito fuori per strada, mi sono chiesto se la puzza mi era stata attaccata per contagio. O se venisse da me, oggi che ho fatto la doccia con un sapone diverso. Chissà tante volte, non si sa mai. Ma non avendo un riscontro preciso sulla questione ho ritenuto di non pensarci più. La signora con gli occhiali e l'ombrello era scomparsa ormai ed era ora di fare colazione con una bella brioscia e un cappuccino al chiosco del Tumbun di San Marco.

mercoledì 14 settembre 2016

Giannitto e le pallottole

Per la festa di Novembre i ragazzi del quartiere di S. Antonio avevano preso i regali lasciati dai Morti la sera prima. Ognuno aveva il suo, chi una carabina e pallottole, chi la fondina e il cinturone. A un certo punto i ragazzi della III Traversa fecero un passo indietro verso la zona della fontanella. Nino Gugliotta e Gianni Piana erano a capo della prima squadra.

Quelli della IV Traversa e delle altre zone del quartiere ammessi alla parata fecero un altro gruppo. Si cominciò a sparare con fulminanti e caps. Qualcuno cadeva a terra e qualcun'altro si rialzava, si era fatto un bel buco alla camicia nuova. Finalmente tutti si misero a correre gli uni nel campo degli altri come gli indiani verso Fort Apache. Ma a un certo punto i caps e i fulminanti cominciarono a esplodere nelle tasche di uno a causa del calore e delle cadute. 

Il fumo usciva dalle tasche dei pantaloni corti nuovi nuovi mentre le pistole cadevano per terra. Il botto si fece sempre più forte e continuo, man mano che un fulminante contagiava l'altro fulminante e così via fino alla fine di tutto il materiale esplosivo.

La sera la battaglia era finita. Le ferite alle ginocchia non si sentivano più. Allora Nino apriva il garage, arrivavano le ragazze e si armava un palco per la band con la chitarra elettrica di Niccolo Rapisarda. Una specie di Samba Pa Ti era il suo ultimo successo. Niccolo era quello coi capelli rossi della VI Traversa. La ragazza dai capelli neri aveva una sorella e veniva solo per le feste dalla grande città.

Gianni aveva spesso gli occhi velati come da qualcosa che doveva spostare per guardarti bene in faccia. Poi ti prendeva sotto braccio, quando doveva dirti qualcosa di importante. Un giorno andiamo al mare insieme Turi, mi disse. Voglio imparare a nuotare insieme a te, la voce era roca e bassa come per confessare qualcosa.

Trans art

Questo paese è mix ingegnoso di povertà, assenza di Stato, casta di garantiti, piccoli e medi con partita Iva allo sbando, ragazzi in libera uscita e un popolo di gaudenti disposti a finanziare tagliagole e ghigliottine.

Da Nord a Sud è il terreno di coltura ideale per comici e meravigliati della grotta. Poi ci sono quelli fuori, ai margini, chi ruba per tre e chi non ruba ma elude e diventa ricco.
Trans art e il sasso piatto
Per fortuna sono ancora tanti a tirare avanti anche per gli altri, prendono un tram per andare e tornare a casa, portano i cani e figli a spasso per il parco. In questo paese arrivano i ragazzi di tutti i colori del mondo e vengono a imparare quello che per secoli abbiamo imparato e ora stiamo dimenticando di proteggere. 

La guerra civile, lo scontro sociale, potrebbe crescere - il modello siriano è quello che si porta di più adesso - tra i poveri senza niente da perdere e tutto il resto che non governa e che abbandona le cose pubbliche, dalle strade alle scuole. Uno Stato senza autorità ostaggio dei suoi tirapiedi e protetti, uno strato di brava gente disposta a emigrare e una casta di protetti dagli amici degli amici.

venerdì 9 settembre 2016

Marcia longa

Partiti dalla IV Traversa arrivarono già provati al piazzale del Municipio che si apre dopo il giardino pubblico in cima alla XIX Traversa. Mimmo Russo sbandierava segnali da una macchina, un altro socio amico suo alto e dal naso grande appendeva i numeri alle magliette. Il gruppetto si unì agli altri tre mila concorrenti che andavano a passo di corsa ma una volta a Borrello, dopo appena un paio di km, si misero a camminare.

Verso le 10 i castagni passavano a fianco e la ginestra anche, a forma di albero e di siepe. Era la prima Marcia Longa da un paese verso il rifugio Sapienza, una specie di corsa maratona di 22 km trasformata in scampagnata con le madri e le vicine pronte a rifornire i poveri ragazzi di succo di arancia o latte di mandorla.

In gruppi sparsi i maratoneti veri avevano tagliato il traguardo intorno alle nove e mezza mentre i camminatori passeggiatori arrivarono con un certo sforzo, certuni senza scarpe e altri con le piaghe sotto i piedi. Alle 11 dopo tre ore di camminata sull'asfalto il monte San Leo e la contrada della Quercia erano chiari e limpidi, gli occhi cominciarono ad appannarsi di fronte all'Albergo di Corsaro. 

Turi Pulvirenti era il più preciso e ordinato, tirò fuori il fazzoletto bianco piegato in quattro dalla sua borsa a tracolla e si asciugò la fronte. Pippo Rapisarda e Gianni Piana fecero le foto, si perse del tempo per salire sui muretti e schierarsi in ordine. Solo Pippo Motta e Ciccio Santamaria erano freschi come le rose, forse perché erano abituati a spalare terra e portare i secchi di calce.

martedì 6 settembre 2016

Amparissi

Stavo seduto sul bordo dell'acqua corrente e avevo la sensazione di muovermi con lo sfondo del canale e dei riflessi dei palazzi della Darsena. Un cartello dice che la costruzione risale al 1648 e poi che sfrutta la pendenza del suolo da Milano fino a Pavia. Una cosa colossale al confronto dei palazzoni di cemento alti sui tetti della città a forma di vela.

C'è un momento per correre e uno per fermarsi. Di solito nel primo caso si guarda avanti, nel secondo, al contrario, si guarda indietro. L'acqua del Ticino arriva fino a qui, portava le barche che portavano i marmi e le pietre del Duomo, le verdure e il riso dell'Oltrepò, la gente commerciante, i ragazzi e le ragazze a cercare fortuna.

Il sole dell'estate scalda ogni cosa, anche le bancarelle di peruviani. Vendono il frutto proibito, il platano che diventa nero e dolce. "Questo si mangia fritto!" C'è un sedile di marmo bianco a forma di onde, le mura di mattoni rossi sono nuovi. Ma qui avevano fermato i lavori perché c'era anche un porto romano e per anni si vedevano solo paratie di alluminio.

Che combini? Subito risponde. Scusa con chi parlo? E tu chi sei? Ho tenuto per mesi la tua tela di juta con dei graffi, era incorniciata nel legno grezzo. Mi chiedevo se ancora lavori con dei quadri. Io sono nome e cognome ed ero amico, cioè ero fidanzato di questa che poi era amica di tua sorella e perciò anche tua. E come hai avuto il mio numero? Sono passati alcuni decenni, diciamo almeno tre, però mi ricordo della forma del suo viso. E pensavo a come si cambia o a come non si cambia,  a come restano impressi dei dialoghi, delle ombre nella luce accecante o delle luci nella notte. 

Sarà stato perché il numero non lo ha mai cambiato e ora mi sei apparsa come essere attivo e pulsante. Forse me lo aveva dato pensando che un giorno ti avrei chiamato. Quella sera siamo arrivati a Sabaudia in 500 percorrendo la Pontina, nella piazza romanamente disegnata dal Duce e ora giustamente i veneti bevono l'ombra seduti al bar già la mattina. 

Un gatto salì addosso tra le mie gambe e si fece un certo clamore intorno. Poteva essere la copertina del primo album folk rock rivisitato tra i pini marittimi, Moravia e la sua amica camminavano a stento tra i portici. C'era un laghetto, un uccello raro morto ritrovato tra gli alberi sulla strada all'ombra della riserva. C'erano due amiche stese sul letto con la faccia coperta di una crema verdastra rigenerante dopo tante ore di trattamento.

Il tempo passa e spassa come un piccione sopra il suo pezzo di cornicione. Sui bordi del Naviglio ora ci sono quelli con computer e barbetta riccia. Mi ha fatto piacere la tua chiamata, sono un'artista, puoi trovarmi e sapere delle mie mostre, della Triennale anche. Certo, sicuro, grazie, allora ciao. Ma non mi ricordo come ci siamo conosciuti, mi ricordo che ci siamo visti in via De Lollis ed era passato del tempo, forse un anno dalla prima volta. Quando ero dalle tue parti e il professore cieco ascoltava Haydn in una stanza buia per apprezzare la grande musica davvero.

venerdì 2 settembre 2016

Stesso tempo

Quando ero appena giovinetto volevo una ragazza sexy sbrexy, invece ho preso una fidanzata rasserenante come fossi un vecchio. Quando ero giovanotto volevo avere un figlio, mi è capitata una tipa giustamente passionale ma un pò lamentosa e sterile. Quando decisi di avere una famiglia mi sposai con una dolce arguta intellettuale, il bambino era di troppo e fu come congelato.

Poi ci fu un tale movimento che non si capiva niente sul destino e sulle direzioni. Era il caso di mettere un punto e ricominciare. Così presi alla grande l'idea del ranch nel far west con animali e compagna ma purtroppo una aveva già un figlio da accudire e l'altra anche delle galline da uova da covare. Quando poi mi ritirai nel mio esilio confinato nella natura sconfinata, coltivai gli ulivi, e con buone scarpe per tanta terra ancora riprendevo a camminare e a respirare.

giovedì 1 settembre 2016

Lorenzo nel Cilento

Ho un certo numero di figliocci, dunque sono tante volte padrino. L'essere il custode a distanza di un ragazzo è un onore che ho ricevuto dai miei amici, che a un certo punto mi hanno chiesto con l'aria ufficiale un pò imbarazzata, vorremmo che tu diventassi il padrino di mio figlio. Perciò volendo fare un punto della situazione sono padrino di Lorenzo, figlio di Pippo, ma anche di Daniela, figlia di Concetto, e di Luca, figlio di Alfio, come di Isabella, figlia di Giorgio.

Praticamente i miei quattro amici del cuore hanno fatto i loro figli tutti negli anni Ottanta, che sarebbe stato un periodo fertile anche per me. Ho infatti sfiorato da vicino la paternità almeno un paio di volte, per non parlare della volta più clamorosa, proprio l'ultima verso il '91. Oggi avrei potuto avere un figlio 35 anni, o uno di 30 o almeno un altro di 25, invece non ne ho nessuno. In compenso, e in più ancora, sono padrino anche di mia nipote Beatrice, di un mio cugino Lucio e sono perfino padrino di cresima e non di battesimo, somma di paradossi, di un certo Battista figlio di un'amica di famiglia affezionata portando così a quota sette il totale dei fortunati ragazzi.

Per qualche motivo i miei amici erano e forse sono ancora legati a me da qualcosa che potremmo definire come delle catene inossidabili. Con Giorgio la voglia di una birra ghiacciata davanti a un libro foderato e spesso di Anatomia chiusi in una stanza. Con Pippo la visita di Padova e Venezia dormendo per una notte nelle camere degli studenti ai tempi del Teatro la Fenice e del Carnevale di Venezia. Con Alfio i viaggi tra Roma e Milano a rincorrere palloni sgonfi e squadrati nei campetti delle periferie e delle parrocchie di periferia. Con Concetto le discussioni sulle donne da marito in un Maggiolino verde fino a notte fonda nel mese di agosto del '75, prima che andassi via e lasciassi la mia casa.

Lorenzo è andato in bici nel Cilento, prima qualche anno fa si era fatto gli Appennini, un altro anno le Alpi. Forse è il figlioccio che sento più vicino perché quando parliamo mi chiede sempre qualcosa di vero. Poi gli rispondo e lui fa sempre Ok, come per dire si ho capito, ho capito nel senso profondo quello che mi hai detto. Sono interessato alle cose che fai e magari un giorno verrò a fare qualcosa con te. Sono il padrino, il patrozzo, che non sa neanche le date di compleanno dei suoi figliocci. Che non si ricorda più niente di niente. Che si era dimenticato di quanti anni sono passati dall'ultima volta che è successo qualcosa di importante con Lorenzo o gli altri, come andare a funghi per gli alberi, perdersi e ritrovarsi.