martedì 6 settembre 2016

Amparissi

Stavo seduto sul bordo dell'acqua corrente e avevo la sensazione di muovermi con lo sfondo del canale e dei riflessi dei palazzi della Darsena. Un cartello dice che la costruzione risale al 1648 e poi che sfrutta la pendenza del suolo da Milano fino a Pavia. Una cosa colossale al confronto dei palazzoni di cemento alti sui tetti della città a forma di vela.

C'è un momento per correre e uno per fermarsi. Di solito nel primo caso si guarda avanti, nel secondo, al contrario, si guarda indietro. L'acqua del Ticino arriva fino a qui, portava le barche che portavano i marmi e le pietre del Duomo, le verdure e il riso dell'Oltrepò, la gente commerciante, i ragazzi e le ragazze a cercare fortuna.

Il sole dell'estate scalda ogni cosa, anche le bancarelle di peruviani. Vendono il frutto proibito, il platano che diventa nero e dolce. "Questo si mangia fritto!" C'è un sedile di marmo bianco a forma di onde, le mura di mattoni rossi sono nuovi. Ma qui avevano fermato i lavori perché c'era anche un porto romano e per anni si vedevano solo paratie di alluminio.

Che combini? Subito risponde. Scusa con chi parlo? E tu chi sei? Ho tenuto per mesi la tua tela di juta con dei graffi, era incorniciata nel legno grezzo. Mi chiedevo se ancora lavori con dei quadri. Io sono nome e cognome ed ero amico, cioè ero fidanzato di questa che poi era amica di tua sorella e perciò anche tua. E come hai avuto il mio numero? Sono passati alcuni decenni, diciamo almeno tre, però mi ricordo della forma del suo viso. E pensavo a come si cambia o a come non si cambia,  a come restano impressi dei dialoghi, delle ombre nella luce accecante o delle luci nella notte. 

Sarà stato perché il numero non lo ha mai cambiato e ora mi sei apparsa come essere attivo e pulsante. Forse me lo aveva dato pensando che un giorno ti avrei chiamato. Quella sera siamo arrivati a Sabaudia in 500 percorrendo la Pontina, nella piazza romanamente disegnata dal Duce e ora giustamente i veneti bevono l'ombra seduti al bar già la mattina. 

Un gatto salì addosso tra le mie gambe e si fece un certo clamore intorno. Poteva essere la copertina del primo album folk rock rivisitato tra i pini marittimi, Moravia e la sua amica camminavano a stento tra i portici. C'era un laghetto, un uccello raro morto ritrovato tra gli alberi sulla strada all'ombra della riserva. C'erano due amiche stese sul letto con la faccia coperta di una crema verdastra rigenerante dopo tante ore di trattamento.

Il tempo passa e spassa come un piccione sopra il suo pezzo di cornicione. Sui bordi del Naviglio ora ci sono quelli con computer e barbetta riccia. Mi ha fatto piacere la tua chiamata, sono un'artista, puoi trovarmi e sapere delle mie mostre, della Triennale anche. Certo, sicuro, grazie, allora ciao. Ma non mi ricordo come ci siamo conosciuti, mi ricordo che ci siamo visti in via De Lollis ed era passato del tempo, forse un anno dalla prima volta. Quando ero dalle tue parti e il professore cieco ascoltava Haydn in una stanza buia per apprezzare la grande musica davvero.

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