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Bianca di pizzo

Sono sceso nella catacomba della metropolitana. Di sera gli schermi delle tv parlano di morti sulle spiagge della Libia. Un vento gelato ha spazzato le strade dalla foschia e ci accompagna nelle scale mobili, forse sarebbe stato meglio camminare. Uomini e donne nella stessa misura aspettano i vagoni verso la Centrale. Non fanno ancora la rivoluzione, tornano a casa e guardano il cellulare per un messaggio.

Sono genti di tutte le marche e capigliature, fanno qualcosa di giorno ma il giorno è passato. E hanno ancora alcune miglia davanti. Stasera, però, sembrano una mandria dello stesso gregge. Perché vestono di scuro e portano jeans e borsetta. E perché le luci verdi dei neon li passano nel tritacarne della confusione, tra i rumori di fondo e nelle code alle macchinette o agli ingressi delle porte scorrevoli. Quelle che a fine corsa fanno bum!

Nel centro delle città come Milano o New York le formiche sono i manovali degli uffici. Sono i trentenni e quarantenni che puliscono, trasportano, scrivono, guardano e controllano le portinerie. Alla sera tornano in periferia a dormire nel bilocale, il sabato spediscono i soldi da qualche parte. Ma ora che sono le otto e mezza, sono in piedi dalle sei di mattina, non hanno voglia di parlare e farebbero a meno di vederla la bianca cinese, una ragazza che cammina e barcolla sui tacchi con le gambe storte della rachitide.

Tra il nero e il grigio la bambina orientale si muove senza giaccone; una specie di medusa luminosa nel profondo dell'oceano o come una lucciola nella radura del bosco. E' una bambola vestita di bianco, con le labbra bianche a forma di cuore e guarda fissa davanti. La borsetta scende verso i tacchi alti degli stivaletti di velluto nero. Il volto è coperto dai capelli lisci sulle spalle, ha una maglia di tulle e di pizzo e le calze sono come la calce. Il confetto è avvolto nelle sua gonna di balze e corre fuori verso le luci.

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